lunedì 31 gennaio 2011

Lettera aperta alla Presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria

Cara Presidente Federica Guidi, dopo avere studiato al Liceo Classico “Galvani” di Bologna, mi sono laureato in Giurisprudenza.
Anch’io, come Lei, lavoro nell’azienda di famiglia, solo che, a differenza della Sua azienda, che produce energia, la mia azienda produce e diffonde energie, essendo uno studio legale specializzato in servizi avanzati alle imprese.
Non ritengo di essere fuori dal Mercato, così come non lo sono i miei molti colleghi che ogni giorno fanno di Bologna una città all’avanguardia nel terziario avanzato, nei servizi altamente specializzati e che costituiscono un prezioso giacimento culturale.
Il fatto che negli ultimi anni la politica non si sia dimostrata capace di valorizzare queste esperienze, ci dovrebbe portare a riflettere su come invertire questa tendenza, senza cadere nella tentazione di ripiegare verso una minore specializzazione del lavoro, nella prospettiva di una competizione al ribasso.
Dicendo che né un laureato in discipline umanistiche, né un laureato in ingegneria possono oggi sentirsi al sicuro, di fatto si apre la strada a una minore qualificazione professionale, che, se realizzata, indebolirebbe, anziché rafforzare, il nostro tessuto economico.
Intendiamoci, sono anch’io convinto che all’industria occorrano ottimi periti e disegnatori meccanici: quello che non condivido è che le scelte debbano essere prese con la prospettiva contingente dell’attuale crisi occupazionale.
Non c’è niente di più bello che poter realizzare i propri sogni.
Ciò vale soprattutto con riferimento alla scelta della propria occupazione, elemento che caratterizza la vita di ogni individuo adulto, rappresentandone il fulcro degli interessi e delle passioni.
La nostra cultura, cui Lei fa riferimento, non prevede una dissociazione tra essere umano e lavoratore e, a mio parere, le contaminazioni culturali, l’amore per ciò che riguarda l’uomo, sono ottime precondizioni per affrontare qualunque esperienza lavorativa.
Anziché disperdere la tradizione italiana, Presidente, lavoriamo assieme per superare le nostre attuali debolezze.
A Bologna, in particolare, le Facoltà scientifiche soffrono più di altre la crisi economica e i tagli imposti dal Governo.
Le imprese, e in particolare i giovani imprenditori che lei, in parte, rappresenta, potrebbero avviare, assieme all’Università, un percorso di coinvolgimento e di rilancio della scienza in città.
Su un progetto del genere sono certo che la politica, e in particolare il Partito Democratico, assieme alle associazioni di rappresentanza delle imprese, dovrebbe fare la propria parte, a patto che si lavori per arricchire i saperi diffusi e metterli al servizio della collettività e non per trincerarci dentro le mura, osservando l’esterno con un misto di timore ed invidia.
Cordialmente,
Tommaso Guerini

venerdì 8 ottobre 2010

Le eccellenze non piovono dal cielo: bisogna costruirle.

Lettera aperta ai colleghi delle Facoltà di Scienze della Formazione.


Corrado Ziglio*


Da più di 30 anni mi informo sui sistemi universitari nel mondo. Quello che ho percepito è che come la Ford o la FIAT producono macchine, le università devono produrre cervelli e teste pensanti, dall’ingegneria alla filosofia. Cervelli, non collezionatori di esami.
Non voglio dilungarmi oltre. Entro subito nel merito ragionando sulle Facoltà di Scienze della Formazione che vedono un curricolo triennale da autentico esamificio alle attuali lauree magistrali (una volta si chiamavano specialistiche) che con una logica gattopardesca, hanno mantenuto non solo la struttura di esamificio, ma quel che è peggio non specializzano affatto. Tempo fa mi era stato risposto in un pubblico confronto che “le specialistiche dovevano essere generaliste”: un ossimoro degno delle famose “convergenze parallele”.

Provo allora a tradurre in percorsi operativi alcune idee per restituire una dimensione culturale ai percorsi universitari delle lauree magistrali.
L’ultima sollecitazione mi è venuta in occasione del terremoto in Abruzzo. Seguendo una serie di servizi, scopro che sono stati attivati psicologi, psichiatri infantili, perfino i clowns. E i pedagogisti dov’erano? Ma come, con tutto quello che c’è da fare sul piano della riaggregazione degli alunni delle scuole, degli insegnanti, ecc., solo per fare un esempio, si assisteva invece all’assenza totale di interventi professionali di questa natura ed era tutto lasciato a qualche insegnante volonteroso che dopo essersi ripreso lui dalla tragicità dei fatti cominciava a cercare i suoi alunni impauriti tra le tendopoli.
Perché allora non pensare ad una laurea magistrale di “Psico-Pedagogia dell’emergenza”? Non ci sono solo i terremoti, ma anche le alluvioni ed altre catastrofi naturali che colpiscono le popolazioni.
E’ chiaro che in una laurea magistrale così concepita, alcuni dei docenti potrebbero essere esperti della Protezione Civile e della Croce Rossa. E’ altrettanto chiaro che il sistema dei crediti andrebbe rivisto: un po’ meno esami e un po’ più di crediti riconosciuti per stages nei luoghi dell’emergenza.
Così si costruiscono le professionalità e così si realizzano le Facoltà di eccellenza.
Da quest’anno ho un insegnamento a Rimini di “teorie della cooperazione in educazione”. Auspico che si trasformi in “teorie e progetti operativi di cooperazione in educazione”. In questo caso si tratterebbe di cooperare con la Protezione Civile e con la Croce rossa italiana.

Di idee come queste ce ne possono essere tante. Ognuno ne può proporre. In passato ne avevo proposte altre. Una, che mi è molto cara, perché è da 15 anni che collabora sul piano della formazione con la Polizia di Stato, sarebbe una figura esperta in scienze dell’educazione alfabetizzata al linguaggio giuridico (potrebbe chiamarsi pedagogista giuridico? E’ solo per capirsi. Andrebbe bene qualsiasi altra denominazione). Quello che ho scoperto facendo ricerca sul campo e realizzando formazione è che gli uomini e le donne della Polizia di Stato sono impegnati su terreni squisitamente di scienze dell’educazione: il 70% degli interventi delle “volanti” riguarda l’andare a sedare le liti familiari, e questo è un dato nazionale (quindi da Bolzano a Siracusa) e non è una statistica campionaria ma si tratta di una statistica da censimento, perché ricavabile dai verbali delle volanti che, rientrando nelle sedi, descrivono la natura dell’intervento. Ma poi ci sono le violenze sui minori, il disagio adolescenziale (circa 2000 ragazzini all’anno scappano di casa), i fenomeni di bullismo, ecc. Fenomeni su cui i poliziotti dei vari servizi sono impegnati quotidianamente. Assieme a un gruppo di studenti, quando i corsi erano più lunghi, ho monitorato per un anno intero le chiamate al 113. Beh, abbiamo scoperto che il 20% delle chiamate riguarda genitori che, preoccupati che i loro figli frequentano cattive compagnie, chiedessero ai poliziotti consigni educativi. Ma i poliziotti non sono laureati in scienze dell’educazione. Da qui avrebbe potuto nascere una cooperazione tra la nostra Facoltà e il Ministero dell’Interno per formare figure professionali alfabetizzate al linguaggio giuridico, perché di reati si tratta ed è importante capire la natura del reato, di supporto ai poliziotti impegnati su questi terreni.
E’ chiaro che in una laurea magistrale così concepita, alcuni dei docenti avrebbero potuto essere esperti della Polizia di Stato, quelli maggiormente impegnati e sensibili. E’ altrettanto chiaro che il sistema dei crediti avrebbe dovuto essere rivisto: un po’ meno esami e un po’ più di crediti riconosciuti per stages nelle strutture della Polizia dove questi fenomeni avvengono.

E ancora. Ho fatto ricerca in reparti pediatrici per progettare formazione rivolta agli operatori sanitari. In quei luoghi c’è una miriade di problematiche educative ma né i medici, né il personale infermieristico è laureato in scienze dell’educazione: vanno, come i poliziotti, “a naso” e “a buon senso”.
Perché allora non pensare a una figura professionale esperta in scienze dell’educazione alfabetizzata al linguaggio sanitario? Vogliamo chiamarlo pedagogista sanitario? Anche qui, è solo per capirsi. Potrebbe benissimo chiamarsi in un altro modo. In un reparto pediatrico ci sono medici, infermieri, figure parentali sempre presenti, un numero assai consistente di insegnanti con ruoli istituzionali che turnano per non fare perdere gli anni di scuola ai bimbi ricoverati. Nella mia ultima esperienza, in un reparto pediatrico in cui i bambini sono affetti da una strana malattia alle ossa, una cellula impazzita che fa strage di vite umane nell’ordine del 30%, ricordo la figura di un insegnante che diceva severamente a un bambino: “Guarda, che domani ti interrogo!” Ma si può comportarsi così con un bambino che non sai se il giorno dopo ci sarà ancora?
E’ dalla ricerca sul campo che nascono progetti di figure professionali e idee di formazione. In un contesto di reparto pediatrico, una figura esperta in scienze dell’educazione e della formazione potrebbe diventare un volano formidabile di supporto tra personale sanitario, parentale e insegnante. E’ chiaro che deve alfabetizzarsi a un linguaggio sanitario, conoscitore delle terapie. Se so che ogni 4 ore un bambino ha un ago in vena, calibrerò le attività di socializzazione, di laboratorio, ecc. tenendo presente la natura delle terapie. Ed è altrettanto chiaro che in una laurea magistrale che forma questa figura ci siano anche medici e infermieri e che il sistema dei crediti possa considerare molti stages da realizzarsi in più contesti di reparti pediatrici.
Su questo filone sanitario potrebbero essere sperimentati altri percorsi, come l’educazione alimentare che vedrebbe nascere esperti in scienze dell’educazione e della formazione cooperare con i medici di base, le famiglie, le scuole, gli esperti nutrizionisti, ecc. Anche qui, e non mi sto a ripetere, lauree magistrali con presenza di quegli esperti e un sistema dei crediti giocati diversamente da un susseguirsi di corsi.

E poi ci sono i grandi territori della cooperazione internazionale.
Ho avuto l’occasione, circa 10 anni fa, di progettare una Facoltà di Scienze dell’Educazione in Mozambico. E’ stata una sfida intellettuale in cui ho avuto l’opportunità non solo di mettere in rete studi, conoscenze, metodologie, ecc. ma anche di neutralizzare processi di imperialismo culturale.
Ora, perché non pensare ad una laurea magistrale che formi figure professionali esperte nella progettazione e realizzazione di Facoltà di Scienze dell’ Educazione nei paesi del Terzo Mondo?
E’ evidente che in una laurea magistrale così concepita, significa cooperare col Ministero degli Affari Esteri, che alcuni docenti potrebbero essere addetti culturali delle Ambasciate e dei Consolati, o di grandi organizzazioni come “Medici senza Frontiere” o, ancora, esperti di progetti educativi dell’Unicef, della FAO, o delle grandi reti missionarie, ecc. ecc. E’ altrettanto evidente che il sistema dei crediti andrebbe rivisto: meno esami e più crediti riconosciuti per stages di analisi dei bisogni nei luoghi in cui potrebbero nascere queste Facoltà.
Utopie? Affatto. Solo grandi idee da esplorare e realizzare. Le eccellenze vanno costruite, non piovono dal cielo né, tantomeno, impiegando e sprecando energie intellettuali per operazioni di bassa ragioneria sul conteggio dei crediti.

Un’ultima considerazione a proposito di grandi idee.
A Dubai, è nata l’Università del petrolio, in cui convogliano tutti i saperi che il petrolio comporta: dai saperi ingegneristici ai saperi economici, finanziari, di raffinazione, di distribuzione, ecc.
A Joinville, in Brasile, dove ho avuto qualche anno fa l’opportunità di svolgere un visiting professor, è nata l’Università dell’ambiente. Anche lì, accanto a geologi, chimici, botanici, medici, ecc. lavorano sociologi, antropologi, psicologi e pedagogisti. Ed era interessante vedere laboratori in cui, ad esempio studenti di medicina che lavoravano su un progetto di salute pubblica lavorassero assieme ai pedagogisti per studiare una modalità di traduzione sul piano educativo. O come gli studenti di chimica che lavoravano su un progetto di raccolta differenziata lavorassero con gli psicologi per studiare le resistenze mentali della gente ad uno stile comportamentale della raccolta differenziata. E via di questo passo.
A Rimini, avrebbe dovuto nascere l’Università del turismo in cui le Scienze dell’educazione avrebbero potuto trovare i loro spazi accanto agli economisti, ai progettisti del territorio, alle categorie coinvolte nel fenomeno turistico, ai servizi sociali, ecc. Da un’indagine sociologica condotta, è risultato per esempio che uno dei fattori determinanti del grande afflusso di famiglie di Tedeschi su tutta la costiera romagnola dipendesse dal fatto che fosse garantita l’assistenza sanitaria 24 ore su 24.
Invece è nato un polo romagnolo delle università emiliane solo per moltiplicare cattedre e insegnamenti. Politiche di espansione disastrose che hanno provocato altrove Atenei in rosso ma che oggi, con la politica di questo governo, stanno penalizzando tutti.

Ho fatto solo degli esempi. Questi sono i miei ma ognuno può proporre i propri. Quello che sarebbe importante è coltivare una dimensione in cui le università continuino ad essere produttrici di cervelli e di teste pensanti. L’alternativa è quella di subire costantemente politiche universitarie disastrose che stanno trasformando una delle istituzioni più belle al mondo in esamifici e una delle più belle professioni al mondo, quella del professore universitario, in un burocrate della cultura.

Forse, aveva ragione la mia nonna quando diceva che “chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane”. Io l’ho trasformata così: “chi ha idee non ha il potere e chi ha il potere non ha idee”.


*Professore associato Università di Bologna